Chi ha letto il precedente aneddoto sui condizionali sa che, dopo aver lasciato Tucano, Sandokan e Jonathan alla loro sorte, conobbi la Titti. La Titti era un po' particolare, di quelle tipe un po' new age ma che amano le belle macchine, una di quelle un po' piccanti ma sempre discrete, di quelle che non disdegnano lo sport ma adorano mangiare, di quelle che adorano mangiare quello che cucini ma non vestire quello che regali loro, di quelle sempre un po' indecise ma intraprendenti, di quelle un po' donne e un po' bambine, di quelle un po' mamme e un po' nonne, di quelle un po' così e un po' colà.
La Titti era una testa di cazzo.
Quando l'ho conosciuta avevo circa trentacinque anni e lei circa trenta.
Questa grande sicurezza sui numeri s'è tradotta sin dal principio in una costante incertezza della vita di coppia; a volte arrivavo a casa e non la vedevo, mi guardavo intorno e non la trovavo, cercavo di osservare bene ma non la notavo. Poi mi decidevo ad aprire la porta e lei era lì, per me, seduta per terra a mangiare cioccolata con un grosso cucchiaio di metallo.
E mi guardava.
E io dicevo «vado al lavoro» e lei «ma non sei appena tornato?» e io «no all'altro». Avevo sempre un altro lavoro quando la vedevo in quello stato.
Le facevo credere qualsiasi cosa e lei ci credeva, perché era buona. Le dicevo che ero guardia notturna, venditore di sogni, killer e astronauta e lei mi diceva solo «stai attento» ma mi credeva, perché era buona. Allora io andavo dai miei amici e non li trovavo. Guardavo in giro, ma non li trovavo. Li cercavo ovunque, aprivo anche la porta delle loro case disdegnando i loro allarmi e uccidendo i loro cani. Ma non li trovavo.
Erano a casa mia con la Titti.
Perché diciamolo, lei era carina. Tutti le dicevano che assomigliava un po' a Kate Winslet, e lei per imitarla, allargava le braccia con un sorriso e si metteva sul cofano di una macchina (dove abitiamo non ci sono prue di navi). Di solito la macchina era la mia, e lei di solito aveva i tacchi. Altri le dicevano che assomigliava a Demi Moore e lei si rasava i capelli e strisciava nel fango. Quando avevo bisogno di qualcosa le dicevo che assomigliava a Wynona Ryder e lei rubava, rubava…
Un giorno mi disse che aveva bisogno di nuovi spazi, e così rase al suolo il giardino. Ora, io capisco che una voglia nuovi spazi o non ami particolarmente gli alberi in giardino, ma non quando siamo a casa di mia madre e NON durante il matrimonio di mia sorella…
Ma lei era fatta così, era una alla mano, una che non si fa problemi, una semplice. Una facile.
Dopo essere stati insieme per circa due anni, un giorno ci separammo: lei era salita sul tram ma io, essendo inciampato, ero rimasto disgraziatamente indietro e non riuscii a fare altro che urlare il suo nome mentre le porte si chiudevano. Dopo la separazione ci ritrovammo alla fermata S.Gottardo – XXIV Maggio, tra lacrime nostre e dei passanti, che urlavano, correvano verso di noi e si mettevano le mani davanti alla bocca. Felici di questa esplosione d'amore, scavalcammo il motorino che era a terra e il ragazzo insanguinato che giaceva di fianco ad esso e ci avviammo verso casa.
Qualche tempo dopo lei mi disse che aveva bisogno d'affetto. Le suggerii di comprare un cucciolo e lei, estasiata dalla proposta, si mise subito alla ricerca.
Comprò uno schnauzer gigante. L'aveva preso in un allevamento. Di tori, dove il cane veniva usato per allenarli a combattere.
Però era addestrato, se tu gli lanciavi l'osso lui ti mandava a calci in culo a riprenderglielo. Quando tornavi sussurrava «così vediamo se lo rifai».
Ma la Titti era molto affezionata a Caino (questo il nome dell'animale), che presto prese un posto importante nella sua vita.
Il mio.
Altro non ebbi il coraggio di fare se non andarmene; non avendo un particolare posto dove dormire andai a casa di mia sorella. Ma questa è un'altra storia.