Il recentissimo Jeeg ZPRO 2025 è stato prodotto in tre esemplari: l’Anime version, realizzato in 2000 copie, e due serie limitate e numerate da 300 pezzi, denominate rispettivamente Vintage version e RDG. La Vintage riprende fedelmente i colori del primo Jeeg giocattolo del 1976 dell’azienda giapponese Takara, ed è stata venduta in esclusiva a chi possedeva l’edizione limitata del Big Shooter ZPRO-02.
Poco meno di un anno fa ti ho parlato del meraviglioso Jeeg CM’s, la più bella incarnazione reale – fino a oggi – del mitico Robot d’Acciaio anni ’70. Cinque mesi fa ti ho invece avvisato dell’imminente preordine di una nuova versione dell’italianissimo ZPRO-01, che prometteva alcune significanti modifiche al precedente modello.
Bene, dopo un lungo viaggio in nave dal lontano oriente, questa settimana è finalmente approdato sulle nostre spiagge.O farei meglio a dire sono approdati, perché oggi vedremo ben due versioni dello ZPRO 2.0, al tempo stesso uguali e molto differenti tra loro. Avevo inizialmente previsto di attendere l’arrivo di entrambi i modelli ma, sebbene siano giunti in Italia con il medesimo container, quello in edizione limitata necessita ancora di alcuni giorni di lavorazione aggiuntiva, tra numerazione e personalizzazione dei contenuti. Gli riserverò pertanto un articolo dedicato in un secondo momento.
Quando il primo agosto 2020, in piena crisi Covid, LEGO e Nintendo hanno unito le forze per lanciare la fortunata serie di Super Mario a cubetti, mi sono immediatamente innamorato di questi personaggi: così stravaganti, eppure azzeccatissimi nell’unire magicamente i due brand.
Mi affascinava, in particolare, la geniale intuizione di integrare una piccola fotocamera sotto i pantaloni di Mario – proprio lì – capace di riconoscere non solo i colori ma anche una vasta gamma di codici a barre, aprendo in questo modo la strada a fantasiose interazioni dinamiche con gli scenari forniti nei set.
Quando alcuni mesi fa ho parlato del fantastico Jeeg che mi sono regalato per Natale (ero stato molto, molto, molto bravo), non ho nominato nemmeno una volta il Big Shooter, ovvero la navicella tramite la quale Miwa lancia a Hiroshi i componenti del robot.
A differenza di tutti gli altri cartoni animati di quegli anni, dove i comprimari erano semplici siparietti comici o contavano come il due di coppe quando briscola è denari, nel caso di Jeeg l’apporto di Miwa è sempre fondamentale. Senza di lei Hiroshi non può completare la trasformazione, ed è costretto a combattere in forma di cyborg con tutti i limiti del caso. È vero che a lei davano missili di cartone, che solo in pochissime occasioni si sono rivelati di una certa efficacia; ma i suoi coraggiosi interventi, spesso a discapito della propria salute (le commozioni cerebrali a seguito di capocciate e conseguenti svenimenti sono infinite, praticamente una a puntata) hanno spesso risolto situazioni disperate. Considerando che erano i primi anni ’70, è piacevole notare quanto la mentalità nipponica era già parecchio avanti rispetto a noi europei, avvalorando la tesi che dietro ogni grande robot (vabbè, grande… Jeeg è altro 11 metri, contro per esempio i 30 di Goldrake) c’è sempre una grande donna. Qualche volta anche carina.
Oggi ho rimesso mano al mio scaffale dedicato ai Chogokin di Bandai per aggiungere un nuovo inquilino. Hmmm… cosa ci fa un cubo di Rubik insieme ai miei robottoni?
Per mia grande fortuna, e probabilmente anche perché non sono nato in una famiglia col maggiordomo, non ho mai avuto passioni economicamente gravose. Ho tuttavia numerosi piccoli hobby che, per quanto contenuti e mai portati all’estremo, nel complesso hanno contribuito a tenermi sempre in bilico tra l’avere un tetto sopra la testa e andare a vivere sotto un ponte.
Il mio amore per Tolkien risulta molto evidente dalle pagine di questo blog. Anche quello per i mattoncini Lego traspare dagli articoli meno recenti (ma rimane comunque latente e mi spinge a piccoli grandi acquisti di tanto in tanto).
Ciò a cui credo di non aver mai accennato è il profondo affetto che nutro per i robottoni anni ’70.
I Playmobil mi sono sempre stati antipatici. Non saprei spiegarne esattamente il motivo, magari è perché sono un prodotto tedesco e i tedeschi non sono particolarmente celebrati per le loro velleità artistiche.
È curioso perché in realtà ne ho avuti tanti da piccolo. E li ho tuttora perché non butto mai via niente.
Non possiedo l’edizione fisica di Shadow of the Colossus per Playstation 4 perché ho acquistato l’edizione digitale. E possiedo l’edizione digitale perché i maledetti incapaci di Sony, pur avendo promesso che l’edizione speciale del gioco sarebbe arrivata in Italia, non hanno mai mantenuto la promessa; e la versione normale aveva una cover bruttissima.
Uno dei videogiochi a cui ho giocato di più in vita mia (forse addirittura più di Diablo 1) è Shadow of the Colossus, un titolo che, per quanti link possa provare inserire nell’articolo, non renderanno mai un’idea generale dell’esperienza emotiva che è in grado di regalare a pochi, fortunati giocatori.
Per cui non ci proverò. Se conosci SOTC sai cosa intendo, altrimenti guarda le immagini che seguiranno, magari ti faranno venire la voglia di provarlo.
Un giorno mi è venuta voglia di dedicargli una mappa. Per inciso, nel gioco ce n’è già una ma, per quanto artisticamente molto bella, è piuttosto confusionaria. Tra l’altro parte completamente coperta dalle nuvole (vedi sotto), per poi aprirsi piano piano, e aggiungere dettagli man mano che si progredisce nella storia.1Non fare caso alla qualità delle immagini, le ho trovate al volo su Internet e non avevo voglia di elaborarle. Ma rendono l’idea.
Questo articolo è un po’ colorito. Un po’ tanto colorito. Diciamo che è un articolo arcobaleneggiante di colori, ma trovo sia il modo migliore per esprimere al meglio le emozioni del momento. In realtà, vista la paradossalità dell’intera vicenda, non sono più nemmeno incazzato; col passare delle ore è sopraggiunto una sorta di distaccamento emotivo, accompagnato da una svogliata delusione per un marchio che un tempo era tra i migliori al mondo. Vabbè, c’est la vie, come dicono i tedeschi…
La tocco piano così non ho bisogno di essere diplomatico. Nel corso della mia più che quarantennale carriera videoludica, tra i numerosi sistemi che ho posseduto, hanno ricoperto un ruolo di grande rilievo la Playstation 1, la Playstation 2, la Playstation 3 e la Playstation 4 (che conservo tutte da qualche parte in giro per casa).
Non ce ne saranno altre. La 5 non mi ha mai tentato, probabilmente per via della mancanza di titoli realmente interessanti per me. Meglio così.
Inscryption è un gioco che ho acquistato, giocato per un ragionevole numero di ore, e infine abbandonato quando ha tradito la mia fiducia. Ma dei controne parlo più dettagliatamente nella piccola recensione sulla pagina dei giochi.
Venendo invece ai pro, ha una direzione artistica meravigliosa. Lo stile grafico delle carte è la ragione che mi ha spinto a comprarlo e a godermelo per tutto il primo atto. Benché molto difficilmente lo riprenderò ancora in mano, i personaggi che lo popolano mi sono rimasti nel cuore, e oggi ho deciso di trasformarli in oggetti reali.
Sono un videogiocatore dai tempi dei primi Atari. Non uno di quelli estremisti, che passano metà della propria esistenza davanti a un display con un joystick in mano; ma devo dire di aver affrontato, nel corso di più di quattro decadi, tutti i principali classici.
Da una quindicina d’anni a questa parte sto anche tenendo il conto; così, per statistica e divertimento.
Negli ultimi tempi la voglia di videogiocare è andata calando. Non so, sarà il periodo storico in cui abbondano remake e remaster1Sono entrambe riproposizioni di vecchi videogame, la differenza è che le remaster si basano fedelmente sul gioco originale, riproponendolo con una grafica più moderna, mentre i remake si spingono spesso a modificare alcune meccaniche con la speranza di migliorare un gameplay ritenuto troppo datato., e io stesso mi ritrovo il più delle volte a rigiocare titoli che ho amato (vedi Zelda: Breath of the Wild, che ho terminato proprio alcuni giorni fa).
Sarà anche che stanno tornando le belle giornate e ho più voglia di passarle all’aperto che seduto sul divano.
Sarà che di giochi davvero stimolanti (almeno per i miei gusti) non ne vedo molti all’orizzonte.
Sono un po’ di settimane che non posto più niente qui sul blog. La verità è che mi sono stancato di disegnare mappe, per cui penso di prendermi una piccola pausa. Non che me ne sia stato con le mani in mano, alcune idee mi sono venute, però mancava la voglia di portarle avanti.
Contemporaneamente, e probabilmente anche la principale causa di cui sopra, mi sono comprato uno Switch, perché l’imminente arrivo del nuovo capitolo di Zelda mi ha fatto tornare la voglia di rigiocare il precedente, Breath of the Wild (che anni fa avevo terminato su Wii U).
Questo sito ha un photobomber ufficiale. Fino a oggi ha importunato soltanto gli articoli sui Masters of the Universe, con numerose comparsate qui e là; ma ho il sospetto che in futuro potremmo incontrarlo più spesso.
Se sei una persona dalla lunga memoria, ricorderai che poco più di due anni addietro ho pubblicato un articolo sul restauro degli elastici che tengono insieme le gambe dei vecchi Masters of the Universe anni ’80. Per l’occasione, dal momento che Mattel se n’era uscita con una nuova fiammante riedizione denominata Origins, ne ho approfittato per mostrarli velocemente nell’immagine di apertura.
Da allora se ne sono rimasti buoni e tranquilli all’interno delle loro confezioni, anche e soprattutto perché odio esporre oggetti all’aria aperta (sono uno da o vetrinetta o morte!). Ma oggi è arrivato, anche per loro, il momento di uscire alla ribalta e godersi i canonici quindici minuti di notorietà.
Dei Masters of the Universe non so molto. I cartoni animati non li ho mai guardati perché mi sono sempre sembrati un po’ ingenui, ridicoli e probabilmente adatti a un pubblico molto giovane. Ma le action figure erano fighe.
Mio cugino le aveva tutte (oh, tutte!), castelli e veicoli compresi.
Io che ero povero, invece, ne possedevo solo una, He-Man. Da un lato mi piaceva un sacco perché gli anni ’80 erano l’epoca dei vari Schwarzenegger, Stallone e compagnia bella e i muscoloni esagerati andavano per la maggiore. Dall’altra queste action figure mi stavano altamente sul cazzo perché non potevo credere che in un periodo nel quale Big-Jim aveva addirittura braccia in similpelle, col bicipite che si gonfiava quando si piegava l’articolazione, Mattel se ne usciva con dei pupazzetti con gomiti e ginocchia fissi.
Ma vabbè, è andata come è andata e i Masters of the Universe (MOTU per gli amici) sono entrati nella storia. Il mio He-Man è invece uscito dalla mia vita, vittima probabilmente di quel destino a cui vanno incontro tutti i giocattoli poco custoditi: mamma, amiche, figli piccoli, ciao.